un mondo senza racconto

Gianmaria Nerli | blog

Tra le tante crisi di legittimazione che stiamo ereditando dal XX secolo, e da quelli che lo hanno immediatamente preceduto, spicca assolutamente l’estrema fragilità del raccontare che connota le varie culture oggi radunate nella nebulosa della civiltà occidentale. Una fragilità che coinvolge il racconto del presente, con la diffusa inadeguatezza a comprendere categorizzare o anche solo leggere le realtà in movimento, e che diviene inconsistenza se si tratta di immaginare il futuro, immediato o lontano che sia. Nessuno sembra davvero saper o voler raccontare: tanto le proiezioni o le profezie del futuro che i discorsi sul presente si piegano immancabilmente sotto il peso della propria imprecisione, prevedibilità, limitatezza d’orizzonti e d’esperienza. E anche chi prova a raccontare, prima ancora di raccontare, è costretto a dedicare i suoi sforzi a convocare il suo pubblico, a creare una sua comunità privata di target-fruitori, tanto da esaurire in questo sforzo le sue energie di immaginazione e in definitiva le sue ambizioni di racconto. Così che anche la relazione fondativa di ogni racconto, qualcuno che dice e qualcuno che ascolta, ci appare di fatto svuotata. Le cose in generale, i fatti e gli oggetti che ci circondano, sembrano non aver bisogno di essere detti, né di essere ascoltati; semplicemente sono, o stanno; in una sorta di super-ontologia che si innesta sul forte tronco dello sport intellettuale oggi inevitabilmente di moda, la pratica indistinta e impudica della tautologia.

La prima domanda che dovrebbe preoccuparci è dunque: viviamo davvero in un mondo che non ha bisogno di essere raccontato? Che non ha bisogno cioè di nessuna legittimazione? Che non necessità nessuna proiezione nel futuro? Che già racchiude presente e futuro in ogni suo istante, annullando così anche l’immagine del tempo? Viviamo davvero in un mondo che si pensa completamente risolto nella evidenza tautologica che sprigionano gli oggetti e le immagini che esso stesso produce e riproduce? Il nostro insomma è un mondo senza racconto, come prima era senza redenzione?

Il grado di creatività cosmogonica, intesa nel senso più ampio possibile, e la sua capacità di precisione e penetrazione nel cuore delle strutture simboliche del mondo presente, dà giustamente la misura della vitalità, o meglio delle prospettive di vita, di una civiltà, di un sistema di culture, di un modello di sviluppo. Certo, non c’è bisogno di scomodare il racconto per intuire che il modello di sviluppo che domina il globo, il capitalismo multinazionale in piena e continua espansione, non offre molte prospettive di vita e di vitalità a nessuno degli attori che coinvolge, dagli uomini, all’uomo, dalla natura alla integrità biologica. La crisi del raccontare, l’amputazione delle capacità cosmogoniche, però, qualcosa in più di quello che già sappiamo ci dice: ci dice innanzitutto di quanto in profondo è penetrato l’apparato ideologico e simbolico che si è venuto organizzando intorno al nostro sistema di sviluppo, ci dice di quanto sia esteso il suo dominio sulle possibilità d’espressione, ci dice che le tante intelligenze che il mondo ospita fanno fatica a immaginare un mondo diverso dal grande sistema di cose oggetti merci che ci contorna. Ma soprattutto ci dice che queste stesse cose oggetti merci occupano ormai ogni spazio non solo fisico ma anche simbolico, creativo, immaginario: da qui forse il grande senso di effimera libertà che genera il rifugiarsi nella virtualità tautologica e simulata della rete quando capita l’ondata giusta della moda. D’altronde quale spazio fisico e simbolico ci può essere per il racconto se tra pochi anni, qualora nessuno fermi le grandi multinazionali del biotech, anche la natura intesa come processo biologico e identità genetica avrà dei proprietari, sarà merce in senso letterale, se le sementi si dovranno comprare una per una da chi le crea, le produce e le brevetta, se per la prima volta la natura avrà un creatore, per la prima volta sì con nome cognome e indirtizo?

Eppure presunzione più grande non potrebbe esistere di smettere di cercare ovunque un racconto nuovo, una rifondata capacità di cosmogoniare, di immaginare mondi. in pensiero ci ha provato e ci prova ancora, cercando di capire cosa si muove tra i discorsi attuali della scienza o degli scienziati, tra i discorsi dell’arte e della letteratura, della filosofia del cinema, tra le forme o i movimenti del pensiero che vanno emergendo. Un numero della rivista è appena uscito, un secondo uscirà a giugno dedicato proprio a questa ricerca. Ciò che abbiamo pubblicato (e ciò che pubblicheremo) avrà la forza di parlare da sé, per questo ci soffermeremo soprattutto sul dato d’insieme che ci sembra sia emerso, e cioè che più che un’attitudine cosmogonica, i diversi interventi danno vita a una diffusa sensibilità cosmoagonica, se si può dirla con un gioco di parole. Se la domanda in copertina nel 4° numero della rivista proponeva una disgiuntiva tra cosmogonie e cosmoagonie, va detto che il secondo termine ha sicuramente trovato più sintonia e risposte. Certo, i contributi anche molto diversi che abbiamo pubblicato, come è ovvio, sono risposte singolari di singole intelligenze, e il loro discorso non nasconde la loro inevitabile parzialità; sono risposte in ogni caso a una domanda che rimane sospesa, e ovviamente irrisolta. Come resta irrisolta ogni volta che ognuno di noi si imbatte in un grande racconto o in una grande narrazione: perché certo non mancano gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori che di tanto in tanto cercano e trovano la via del racconto. Questi artisti scrittori intellettuali appunto parlano da sé, e qualche volta una rivista come in pensiero può avere la fortuna di intercettarli.

Questo blog può essere utile invece per cercare di capire quali sono le prospettive cosmogoniche delle grandi produzioni di espressione e di pensiero del nostro presente. A partire dalla scienza per finire con l’arte. A partire dalla scienza perché, almeno dalla modernità, la scienza è stato uno dei motori del racconto, anche se adesso appare imprigionata fino al parossismo dalla stessa ideologia positiva che in altre epoche le ha fatto da propulsore, e che ora la condanna a essere comparsa, o se va bene strumento, di un vasto sistema produttivo. E chissà se, al di là della frequente malafede, non sia proprio questa crisi di racconto che ridimensiona anche la scienza, spingendola sul terreno deterministico dello scientismo, della pura operatività, della deificazione di tecnica e tecnologia, dell’illimitata fede nella semplificazione più assoluta dei sistemi complessi che governano l’uomo e la natura. E chissà che non sia sempre lo sfaldarsi del racconto che ha permesso il fiorire di numerosissimi discorsi di tipo millenaristico, discorsi che vanno dalla imminente distruzione del mondo (attenti al 2012!), all’avvento di un nuovo tipo di umanità, il nuovo uomo transumano o postumano (con meno capelli ma più dita, già abilitato alle interfaccia della nuova era digitale). Sì, perché scientismo e millenarismo condividono la stessa matrice, condividono una cieca fiducia nel destino dei loro propri discorsi, più che nel percorso del proprio racconto; perché di fatto abbandonano il racconto, diffidano delle sue potenzialità di apertura, di condivisione, di costruzione simbolica, e quindi continuamente transitoria, dei contenuti e dei significati sociali. Così in questa mainstream scientista-millenarista non è improbabile, e non è senza significato, vedere intrecciarsi serie ricerche sulle neuroscienze e improbabili fantasie cibernetiche.

Ecco, questo blog vuole essere uno stimolo per censire e distinguere ciò che è racconto, da ciò che il risultato del suo collasso. Ciò che è ricerca seria dai deliri di chi si fa convincere dal proprio discorso. E certo questo proposito vale anche per l’espressione dei linguaggi artistici e del discorso intellettuale. Sì, perché nonostante il mainstream, la speranza non può che essere quella di poter aiutare chi racconta a emergere. Anche se non sembra compito facile. Basta pensare alle arti figurative, confinate in un vero e proprio dispositivo che ormai oltre al nome prende anche la solida autosufficienza di un vero e proprio sistema, il sistema dell’arte: l’assenza di racconto, come dire, è ormai conclamata, dal momento che la quasi totalità delle espressioni artistiche risponde unicamente a un assoluto e dogmatico principio di autoreferenzialità. Autoreferenzialità che si esprime o attraverso la velata e voluta demenza della ripetizione tautologica di pezzi di realtà che ci accompagnano nell’esperienza quotidiana, o innalzando automaticamente a racconto e significato l’utilizzo-esposizione di qualunque congegno-dispositivo di interazione che usi nuove tecnologie. Oppure spingendosi fumosamente a ridefinire i confini, addirittura ontologici, delle nuove forme di vita virtuale, o anche solo prosaicamente confezionando prodotti di varia medialità che sappiano affermarsi e vendersi per opere d’arte.

Certo meglio non se la passa la letteratura; e ci limitiamo a ascoltare le lamentele dei poeti circa la crescente irrilevanza sociale della poesia, o le invettive dei critici circa la crisi prolungata del romanzo, ormai frastagliatosi in mille discorsi monologanti e in mille generi di mercato. Quando si parla in positivo. Perché, se ci si dovesse preoccupare dei cattivi romanzi bisognerebbe dire dell’isteria narcisistica di voci talmente inconsistenti da evaporare da ogni pagina sfogliata – di cui le lettere italiane vantano il primato –, oppure delle grandi operazioni di marketing letterario che ormai mirano anche a costruire le carriere degli intellettuali. Che dire poi delle arti che necessitano di un processo di produzione più complesso, come la musica, il cinema, il teatro? Se non che a governare tutto sono esclusivamente, e va sottolineato esclusivamente, l’industria e i suoi fini produttivi, e/o riproduttivi? Dove l’ansia di raccontare non può frastagliarsi nel narcisismo assoluto per ovvie ragioni industriali, ma che si vota alla volatilità dello spettacolo e dell’intrattenimento, senza altra ambizione di quella di aver confezionato un prodotto in grado di avere immediato successo di pubblico. E dove le produzioni indipendenti sono indipendenti solo fino a quando non riescono a farsi comprare da qualche major, senza importare che sia della vecchia o della nuova veloce economia digitale.

Certo questi sono discorsi astratti, ma appunto un blog così, che può essere anche un luogo collettivo, vuol essere uno stimolo e allo tesso tempo uno spazio concreto dove censire, descrivere, appunto raccontare, i confini del nostro mondo senza racconto, i confini delle nostre sempre più piccole cosmotropie…(o viceversa per aprire gli occhi e rendersi conto che accade proprio il contrario, che il nostro mondo pullula di racconti ma noi non li vediamo).

Anche perché un mondo senza racconto, un mondo che non è in grado di configurare e configurarsi le proprie proiezioni cosmogoniche è un mondo che all’apparenza mostra di non aver bisogno di essere raccontato, un mondo risolto, definito una volta per tutte; e un mondo che non ha bisogno di essere raccontato è il mondo più totalitario che si possa immaginare, un mondo anzi che non si può immaginare perché è tutto lì, dispiegato nelle cose e negli oggetti che produce. Un mondo, questo è il timore, tanto simile al nostro da troncarci letteralmente il racconto in gola.

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