Cul de sac 3. Se saremo dinosauri

Gianmaria Nerli | [sintomi alibi cataclismi]

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Sintomi #_1 pesci sott’acqua

Fa una grande differenza sentirsi a disagio nel mondo di oggi rispetto anche solo a una trentina di anni fa: gli sfortunati che un tempo erano o si sentivano emarginati dalla propria stessa vita, o che quella vita non accettavano, potevano comodamente riconoscersi nella metafora ittica del pesce fuor d’acqua. Hai voglia a nuotare nel grande acquario del mondo, per un verso o per l’altro da quel mondo si sarebbero sentiti e forse sarebbero effettivamente stati fuori. Incapaci di aderire alla vita che gli si apparecchiava davanti. Appunto, pesci fuor d’acqua. Oggi però quella situazione è saltata: è semplicemente impossibile cullarsi nell’illusione di stare fuori dall’acqua. L’acquario si è enormemente ingrandito e nel bene o nel male essere o sentirsi fuori dall’acqua è un’esperienza lontana dai nostri orizzonti cognitivi e forse anche emotivi. La novità è che la nostra percezione del mondo tende a equivalere all’acquario in cui nuotiamo. Che si cammini a piè sospinto per strade luminose o che si boccheggi a ogni passo difficilmente ci sentiremo fuori dall’acqua. E se proprio non si vuole rinunciare alla metafora ittica, va detto che oggi non si può far altro che essere pesci eternamente sott’acqua. Perché?

Chi ha conosciuto il disagio della civiltà e quindi non ha potuto fare a meno di misurarsi con la civiltà dei disagi rischia di restare basito, se non addirittura completamente perduto di fronte alla profondità del mutamento. La civiltà del disagio generava e si nutriva di un intrico vertiginoso di conflitti, sociali, esistenziali, familiari, generazionali, politici, allenando persone e comunità a posizionarsi in forme molteplici e dissonanti nei confronti della vita e delle sue costruzioni sociali o psichiche. Da qui sorgeva quella distanza – tra le forme dell’io e quelle del mondo – in cui si nascondeva (o esplodeva) il disagio, distanza necessaria a percepirsi in conflitto, a riconoscere la propria posizione in perpetua mobilità rispetto alla ricerca di benessere emotivo, sociale o politico che fosse. Da qui infine il disagio, vissuto e teorizzato in mille forme, a volte rivendicato (come alterità), a volte demonizzato, ma comunque perno archimedico dell’infinito muoversi e rivoluzionarsi di quella civiltà. È a partire dal silenzioso declinare di questa civiltà che rischia il senno chi si è abituato a rapportarsi al mondo in termini di disagio, cioè di superamento eternamente dilazionato di un’inconformità, o meglio di un dialogo continuamente mancato tra speranza e opportunità, tra illusione e possibilità, tra utopia e politica. Rischia perché quel dialogo e quel disagio hanno finito per essere assorbiti dagli ingranaggi di funzionamento del grande acquario in cui nuotiamo ma hanno smesso di muoverlo, di agitarlo, limitandosi a girare a vuoto. Quel disagio e quel dialogo oggi non esistono più, almeno in quei termini archimedici, perché il grande acquario si muove e si agita da solo senza bisogno di noi, dato che ha regole di funzionamento che ci eccedono, o che ai nostri occhi sfuggono nella complessità infinita del suo linguaggio fatto di numeri e algoritmi. Fatto sta, con buona pace dei pesci, che oggi quel disagio non lo vediamo e non lo sentiamo, dato che è come se fosse evaporato. E in questa evaporazione non ha lasciato in eredità nient’altro che i propri sintomi.

Sintomi # 2_la felicità del mare

Certo, per coloro che non hanno conosciuto la civiltà del disagio, o ne sono stati solo minimamente lambiti, vivere in un mondo appunto liberato dal disagio deve essere come fare surf scivolando sulle onde del mare in preda a una continua ebbrezza: non ci sono limiti alla felicità del mare se è l’unica vita che conosco, io che lo cavalco non riconosco ostacoli. Non che i limiti o gli ostacoli non esistano, ma se esistono hanno la stessa consistenza delle onde, fanno parte del mare in cui scivolo notte e giorno. Certo, certi giorni le onde saranno altissime, come la mia ebbrezza al cavalcarle, certi giorni ci sarà bonaccia e io sarò ebbro solo dell’idea di ebbrezza, ma quel mare con le sue onde sarà sempre lì ad accogliermi tra le sue spume salate. E sempre lì sarà la sua promessa di felicità, una felicità fatta di ebbrezza e di mare, dato che io non conosco altra felicità. Ma da cosa mi viene questa felicità, se in realtà io (ma potrei dire anche noi) riesco ancora vagamente a sentire di non essere felice?

Questa felicità del mare, inabissandoci ancor più nella scivolosa sostanza delle metafore, è il sintomo, il residuo di quella evaporazione, di quel disagio. Se abitiamo il mondo come pesci costantemente sott’acqua, il sintomo residuo del disagio, il sintomo del malessere sociale, esistenziale, psichico, politico prende la forma di questa ebbrezza senza piacere, di questa eccitazione senza oggetto, essendo il mare che ci si offre tutto racchiuso dentro di noi. L’acqua dell’acquario che ci contiene, e quella del mare che ci riempie non solo sono due facce di una stessa medaglia, ma mostrano la stessa consistenza, la stessa qualità, la stessa natura. Tanto che la coazione all’ebbrezza la ritroviamo in ogni ambito della vita sociale o privata, dalla spinta compulsiva al consumo alla moltiplicazione narcisistica dei nostri ego su ogni canale comunicativo, dalla perpetua smania di un godimento immediato all’incontinenza emotiva e pulsionale nei confronti di tutto ciò che esce dai nostri orizzonti di attesa e di controllo. Ma questo perché succede? Perché questa ebbrezza è così forte e attraente? Perché ci affidiamo alla sua felicità anestetica?

Se la speciale felicità del mare è il sintomo del disagio evaporato, ciò che dà sostanza a tale felicità, la coazione all’ebbrezza, non sarà forse l’espressione più diretta del linguaggio che scrive e riscrive il nostro mondo, il nostro acquario-mare? Non sarà il dispositivo che ha assorbito su di sé il disagio che un tempo aveva pure in parte provocato? Non sarà la logica profonda del capitalismo, in particolare della sua ultima versione integrale e integralista? Non sarà il sintomo stesso della trasformazione del capitalismo nella religione di se stesso, una forma di vita che satura ogni spazio, che si muove dentro e fuori di noi, e che non riusciamo più a riconoscere o distinguere, se non appunto per questa irresistibile ebbrezza? Eppure quest’ebbrezza è anche qualcos’altro. È la ragione del successo del capitalismo, è la pulsione profonda contro ogni forma di civiltà intesa freudianamente come incontro e regolazione tra il principio di piacere proprio e quello altrui, è il sintomo di un’aggressività pulsionale non più contenuta ma valorizzata e resa modello: è il sintomo dell’affermarsi di un bisogno radicale di individualità che non conosce paragoni nella storia umana. Un individualismo narcisistico che è allo stesso tempo uovo e gallina, figlio e genitore della nostra civiltà del sintomo. Una civiltà che non solo (ri)conosce solo se stessa, ma di se stessa (ri)conosce solo i sintomi.

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