Quel che resta della lingua

Adrián N. Bravi

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Uomo e lingua madre

Tra gli Angmassalik, una popolazione eschimese della Groenlandia su- doccidentale, racconta Hagege nel suo libro, Morte e rinascita delle lingue, alcuni anziani in punto di morte, per sottrarsi alla fatalità del destino, cam- biano patronimico, in modo che quando la morte si presenta non possa identificarli, perché quel Tal de Tali non si trova più sotto il suo nome di nascita. E dunque ribattezzandosi (non si tratta di un battesimo vero e pro- prio, ma di una nuova investitura) possono sfuggire alla sorte, appunto perché c’è la concessione che sotto il nome si celi l’identità d’ogni singolo individuo. Quindi, cambiando nome possono diventare altro da quello che erano. Da una parte perdono la loro identità, perché al primo nome non corrisponde più nessun corpo o anima che sia, dall’altra però acquistano una nuova esistenza che può restituire loro la libertà che non avevano con l’altro nome. un caso simile agli Angmassalik, ma con un connotato so- ciale diverso, si trova tra alcuni giapponesi che a causa della propria diffi- coltà economica (debiti, ricatti, licenziamenti, ecc.) decidono di scomparire per costruirsi una nuova vita altrove e chiudere con il proprio passato.
Gli Johatsu, che in giapponese vuol dire evaporare, sfumare nel nulla. E sembra che in Giappone sia plausibile “diventare un altro” da quello che si era prima di trasformarsi in un disoccupato, per esempio. Ora, che cosa resta di tutto questo una volta che abbiamo cambiato la nostra identità (sia perché inseguiti dalla morte o dai propri creditori)? Possiamo fare a meno dei nostri tratti fisici (ci sono persone che lo fanno senza essere perse- guitati da nulla, se non dalla smania di vedersi diversi dagli altri o uguali a qualcuno), possiamo anche fare a meno del comportamento o delle nostre abitudini, ma non potremo mai cambiare la nostra propria identità linguis- tica, perché è costitutiva del nostro essere: «l’essere dell’uomo poggia sul linguaggio», dice Heidegger. Dunque, se c’è un’identità nell’uomo questa è data dalla lingua, perché la lingua non è solo un modo di parlare o di es- primersi, ma è un modo di essere e di stare al mondo. Siamo nella nostra lingua, ci contiene nel suo guscio, a prescindere dal nostro nome. Non è pura comunicabilità, la lingua ci svela nel nostro essere e nella nostra intimità. Mi viene in mente quel passo del Libro dei Giudici (12.5-6) dove si racconta la storia degli Efraimiti. Quando un fuggiasco d’Efraim chiedeva di lasciarlo passare i Galaaditi gli domandavano: «Sei un Efraimita?» Se l’Efraimita rispondeva di no, i Galaaditi gli chiedevano di dire la parola shibboleth (scelta come segno di riconoscimento per la difficoltà di pro- nuncia). Allora il fuggiasco invece di dire shibboleth diceva qualcosa tipo sibboleth, senza fare attenzione alla pronuncia e quindi, chi non era capace di articolare correttamente la parola, veniva identificato come straniero. A quel punto i Galaaditi lo prendevano e lo scannavano. Questa storia sem- bra porci di fronte all’impossibilità di negare la nostra identità: la parola ci svela e ci denuda di fronte all’altro. Persino quando parliamo una lingua diversa dalla nostra lingua madre, rimane sempre dentro di noi uno sguar- do, un modo di vedere la realtà e di interpretarla che apparteneva alla nostra lingua d’origine. La lingua madre determina il nostro modo di stare al mondo, perché più che in un mondo, si nasce in una lingua. Insomma, possiamo chiederci, cosa rimane della nostra lingua madre quando par- liamo o scriviamo in un’altra lingua diversa dalla nostra? Mi piace pensare che parliamo la nostra lingua d’infanzia in tante altre lingue e che quella lingua che ci ha visto nascere e crescere non muore mai, rimane nascosta dentro di noi. Stabiliamo un vincolo che non viene mai a meno, appunto perché è difficile, se non impossibile, perdere la propria lingua madre o materna lingua (come dicevano i medievali: il primo riferimento a questo sintagma lo troviamo in un testo mediolatino risalente al 1119 circa).

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